Rettificazione del sesso: non è obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari

Corte cost., sent. n. 180/2017: per ottenere la rettificazione del sesso non è obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari
La Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164/1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), ribadendo che per ottenere la rettificazione non sia obbligatorio l’intervento chirurgico demolitivo o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari.





Questo sito usa i servizi di Analytics e Marketing Automation ShinyStat™

Privacy policy per i visitatori dei siti che usano i “servizi di ShinyStat”


Con due ordinanze di analogo tenore, dell’8 aprile 2015 (r.o. n. 174 del 2015) e del 28 aprile 2015 (r.o. n. 211 del 2015), il Tribunale ordinario di Trento ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) laddove prevede che «La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».
Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, poiché la previsione della necessità, ai fini della rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, dell’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari attraverso trattamenti chirurgici pregiudicherebbe gravemente l’esercizio del diritto fondamentale alla propria identità di genere, inoltre, in contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost., per l’irragionevolezza insita nella subordinazione dell’esercizio di un diritto fondamentale, quale il diritto all’identità sessuale, al requisito della sottoposizione della persona a trattamenti sanitari (chirurgici o ormonali), estremamente invasivi e pericolosi per la salute.
Nel primo caso, soggetto iscritto di sesso femminile, oltre al trattamento con testosterone, aveva eseguito interventi chirurgici demolitivi (mastectomia bilaterale), ma non ricostruttivi, nel secondo il soggetto, iscritto di sesso maschile aveva eseguito solo trattamento ormonale.
La Corte Costituzionale ha, da tempo, riconosciuto che «[l]a legge n. 164 del 1982 si colloca […] nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale» (sentenza n. 161 del 1985).
In questo ordine di idee si è posta la Corte di cassazione, sezione prima civile, nella sentenza del 20 luglio 2015, n. 15138, nella quale è stata condivisa un’interpretazione costituzionalmente orientata, e conforme alla giurisprudenza della CEDU, dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, nonché del successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011. In questa pronuncia, la Corte nomofilattica ha ritenuto che, per ottenere la rettificazione dell’attribuzione di sesso nei registri dello stato civile, non sia obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari.
Invero, si è riconosciuto che l’acquisizione di una nuova identità di genere possa essere il risultato di un processo individuale che non postula la necessità di tale intervento, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale siano oggetto di accertamento anche tecnico in sede giudiziale.
4.2.– Più recentemente, con la sentenza n. 221 del 2015, successiva ad entrambe le ordinanze di rimessione, questa Corte ha riconosciuto che la disposizione censurata «costituisce l’approdo di un’evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)».
Alla luce di tale evoluzione, che è al tempo stesso culturale e ordinamentale, questa Corte ha, quindi, affermato che «la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali. […] Il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta, quindi, autorizzabile in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica. La prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione – come prospettato dal rimettente –, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico».
Alla luce dei principi affermati nella sentenza n. 221 del 2015, la Corte Costituzionale ribadisce che l’interpretazione costituzionalmente adeguata della legge n. 164 del 1982 consente di escludere il requisito dell’intervento chirurgico di normoconformazione e pertanto non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della stessa.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *