Errata diagnosi sul feto: danno da perdita di chance

Cass., sez. III civile (sent. 31 ottobre 2017, n. 25849): risarcimento danni per perdita di chance a causa di errata diagnosi che ha impedito ai genitori di scegliere IVG
Cass., sez. III civile (sent. 31 ottobre 2017, n. 25849): riconosciuto il risarcimento dei danni per perdita di chance a causa di una errata diagnosi che ha impedito ai genitori di scegliere l’aborto a fronte di malformazioni del feto.





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Una gestante alla ventunesima settimana si era sottoposta ad ecografia da parte di uno specialista di ostetricia e ginecologia dell’ASL, che non aveva riconosciuto all’esame la presenza di patologie agli arti superiori di gravità tale da determinarne una invalidità totale e permanente al 100%; l’errore diagnostico e la conseguente, omessa informazione, avevano impedito alla gestante di esercitare il diritto, riconosciuto alla madre dalla L. n. 194 del 1978, art. 6, di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, con gravissime conseguenze per lei e per il marito sul piano psichico e della qualità di vita.
Mentre il Tribunale di Brescia, con la sentenza n. 1587 del 2008, condannò l’Azienda ospedaliera a risarcre il danno per perdita di chance, ovvero perdita “della possibilità di valutare le due alternative oggettivamente possibili e di scegliere liberamente quella, comunque dolorosa, ma meno grave”.
La Corte di Appello ha escluso tale diritto dei coniugi in quanto non avrebbero assolto l’onere di provare che, ove informata delle malformazioni del concepito, si sarebbe determinato un grave pericolo per la salute della gestante e che la stessa gestante avrebbe deciso e ottenuto di interrompere la gravidanza.
Riconosce tuttavia un danno risarcibile, rappresentato dalla compromissione del diritto dei genitori ad essere informati della malformazione del nascituro al fine di prepararsi, psicologicamente e materialmente, all’arrivo di un bambino menomato.
I genitori ricorrevano in Cassazione osservando che la L. 194/1978 non esige, tra i suoi requisiti, anche la verifica della gravità delle malformazioni come condizione di operatività della fattispecie.
La Corte di Cassazione ritiene i motivi dei genitori fondati in quanto “il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite praesumptio hominis, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova in atti, quali il ricorso al consulto medico funzionale alla conoscenza dello stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psicofisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, i.e. che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale (cfr. Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25767 e, da ultimo Cass. civ. Sez. 3, Sent., 11-04-2017, n. 9251).
Nella sentenza impugnata, la Corte di merito non ha fatto corretta applicazione di tali principi laddove ha escluso di poter applicare il ragionamento presuntivo per ottenere la prova in questione, sulla base del rilievo che la malformazione da cui è risultato affetto il F., privo degli arti superiori, non incide sull’espletamento di attività fisica e soprattutto psichiche, e quindi non sarebbe grave”.

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