Anch’io ho avuto il Covid-19: un’occasione per parlarne

Sabato 02/04/2022 ho cominciato ad avvertire un malessere generale e un senso di affaticamento dopo minimi sforzi.

Domenica 03/04/2022, già in condizioni di autoisolamento in casa, ho effettuato il test antigenico rapido al domicilio: negativo!

Lunedì 04/04/2022 un tampone molecolare è risultato positivo, confermato dal primo tampone antigenico di controllo del 11/04/2022.

Finalmente in data 15/04/2022 il tampone è risultato nuovamente negativo.

I sintomi sono stati abbastanza pesanti: già da domenica 03/04 avevo la febbre oltre i 38°C, che si è mantenuta elevata, anche 39,5, fino al mercoledì successivo, nonostante il paracetamolo 1000 mg, cedendo però alla somministrazione di ibuprofene 200 mg, dopo sudate notturne quasi collassanti.

Naso chiuso, mal di gola assurdo, con difficoltà alla deglutizione, tosse secca, dolori addominali lancinanti dopo ogni pasto, dolore in sede lombare bilaterale, mi hanno accompagnato, attenuandosi, per quasi tutta la settimana.

Ho perso quasi completamente l’odorato e del gusto mi è rimasta una generica sensazione di acido, dolce e salato, che non mi consente di riconoscere, ad esempio, cosa sto mangiando: uno yogurt mi dà un gusto di lievemente acido, come la pastasciutta condita con il pomodoro, cambia solo la consistenza.

Oltre ai farmaci antinfiammatori non ho assunto altri farmaci la prima settimana (ho rifiutato l’eparina s.c., preferendo alzarmi dal letto ogni 1-2 ore, anche per attenuare il mal di schiena), ho invece assunto 6 cp di Azitromicina dal 6° giorno in quanto la tosse persistente mi faceva temere una sovrainfezione batterica, ma senza alcun beneficio di rilievo.

Essendo io un medico, in pensione, ma che ha aderito volontariamente alla campagna vaccinale, per cui giornalmente esposto a decine di persone potenzialmente infettanti, ero regolarmente vaccinato con tre dosi Corminaty e pensavo che l’eventuale infezione (Omicron 1 o 2 mi sembravano ormai inevitabili) sarebbe trascorsa quasi asintomatica, invece ho dovuto ricredermi, forse anche per la mia età, prossima ai 70 anni.

L’unica soddisfazione è che, grazie anche alla bravura di mia moglie, non ho infettato altri della famiglia o delle persone che frequentavo, visto l’uso “maniacale” di mascherina e distanziamento, senza mai contatti fisici, neppure con mio padre novantenne.

Oggi, 17/04/2022, giorno di Pasqua, ancora chiuso in autoisolamento di sicurezza (non mi fido dei tamponi rapidi), mi accingo a questo aggiornamento sulla Pandemia da Covid-19, che ha colpito mezzo miliardo di persone nel mondo, causando 6,5 milioni di morti.

Il vaccino non protegge dal Covid-19?

Io ho effettuato tre dosi di un vaccino mRNA (30 mg a dose) che evidentemente non mantiene una difesa assoluta; Spikevax, l’altro vaccino a mRNA contiene 100 mg di prodotto per le prime due dosi e 50 mg (mezza dose) per la terza e verosimilmente effettua una copertura più efficace. Non conosco l’efficacia del Novavax, d’altra parte introdotto recentemente in Italia; sembra abbia azzerato la diffusione della malattia a Cuba.

Il vaccino induce la formazione di anticorpi IgG, che circolano nel sangue e bloccano i virus che tentano di penetrare nelle cellule dei vari organi, non di anticorpi IgA che difendono le mucose dall’attecchimento del virus nella prima fase dell’infezione: posso confermare questo assunto, per una settimana ho avuto raffreddore, mal di gola e gastro-enterite. Anche la tosse era da faringo-laringite, non da polmonite, non ho mai avuto problemi di saturazione (96-98%). Alcuni soggetti, che hanno sviluppato anticorpi contro altri coronavirus del raffreddore, risultano protetti mediante una immunità crociata dal contagio del Covid-19.

Se si vanno ad esaminare i nuovi casi, i ricoveri ed i decessi mensili, risulta assolutamente chiaro che i non vaccinati sono quelli che subiscono numericamente le maggiori conseguenze negative di quella che è, speriamo, la coda della pandemia. Se si considera poi che i non vaccinati sono una percentuale modesta di popolazione rispetto ai vaccinati, allora l’efficacia della vaccinazione diventa ancora più evidente.

Perché si muore di Covid-19

L’Istituto Superiore di Sanità ha aggiornato i dati sulla mortalità e sulla letalità in Italia. Il dato è aggiornato al 6 aprile 2022 su un totale di oltre 157.800 morti.

In base ai dati forniti con il numero di morti per classe di età e il tasso di letalità (numero di morti in rapporti ai positivi) per le stesse classi, emerge che la letalità è molto bassa sotto i 50 anni, poi comincia a crescere in maniera esponenziale nelle cinque decadi successive. L’età media dei morti è quindi maggiore di 80 anni ed è risaputo che sono a rischio di morte soprattutto pazienti con patologie concomitanti più o meno gravi (cardiopatie, diabete, obesità, malattie neurologiche, neurodegenerative e autoimmuni, neoplasie, ecc.).

Quasi si sorvola sui 400 morti sotto i 40 anni (una quarantina di minori) e sul migliaio e più di morti fra i 40 ed i 50 anni, dovendo comunque aggiungere “affetti da patologie concomitanti”).

In realtà i meccanismi patogenetici alla base delle complicanze che possono portare a morte un ammalato di Covid-19 sono molteplici.

Analizzando le cartelle cliniche di oltre 73mila pazienti ricoverati per Covid-19 in 302 ospedali del Regno Unito, un team di ricerca guidato da scienziati dell’Università di Liverpool ha dimostrato che le complicazioni severe sono frequenti anche nei giovani: danni, spesso persistenti anche dopo la guarigione, a reni, polmone e sistemici. Diffusi anche gli effetti cardiovascolari, neurologici, gastrointestinali ed epatici.

Queste complicanze sono state rilevate nel 27% dei pazienti tra i 19 e i 29 anni, nel 37% di quelli tra i 30 e i 39 anni, nel 44% di quelli tra i 40 e i 49 anni e nel 51% degli ultracinquantenni. Fra i meccanismi patologici che possono indurre queste complicazioni si ritiene che un ruolo importante sia giocato da una reazione immunitaria spropositata in risposta all’invasione virale.

L’infezione da SARS-CoV-2 si presenta con manifestazioni cliniche diverse e molto eterogenee: soggetti asintomatici, pazienti affetti da forme lievi, pazienti da ricoverare in ospedale e, di questi, soggetti con forme cliniche gravissime tali da richiedere una terapia intensiva.

Certamente la carica virale e la variante di coronavirus circolante hanno rivestito e rivestono ancora oggi un ruolo importante nell’espressione clinica della malattia. La variante alfa prima e la variante delta poi hanno praticamente raddoppiato il precedente rischio di ricovero in terapia intensiva e di morte

Tuttavia, le sole caratteristiche del virus non bastavano a spiegare l’enorme eterogeneità clinica osservata, così come le differenze di genere, l’appartenenza etnica, lo stato economico-sociale e la presenza di condizioni di co-morbilità. È stata quindi analizzata la variabilità genetica individuale in alcuni soggetti con le forme più gravi.

I meccanismi patogenetici che possono condurre a danni d’organo gravi ed alla morte sono essenzialmente tre.

  1. Il virus provoca in un’alta percentuale dei casi una polmonite interstiziale bilaterale ed in un 20% dei ricoverati in terapia intensiva, una miocardite/pericardite. La polmonite interstiziale comporta un affaticamento del cuore che deve spingere il sangue attraverso i polmoni infiammati, contemporaneamente impedisce una sufficiente ossigenazione del sangue. In soggetti quindi già sofferenti di patologie cardiovascolari la malattia porta ad uno scompenso che rompe il labile equilibrio preesistente e può portare al decesso.

In questi casi la terapia sintomatica con ossigeno, antinfiammatori, inotropi di sostegno della pompa cardiaca ed eparina a basso peso molecolare per prevenire effetti trombotici da allettamento, rappresentano la base della terapia, mentre i monoclonali, gli antivirali e gli antibiotici non giocano un ruolo significativo.

  • Il virus ha determinato l’invasione di molteplici organi e le cellule malate cessano di esprimere sulla loro superficie gli antigeni MHC I per rendere riconoscibile il virus sulla superficie esterna, mentre sta riassemblandosi in altri individui. La perdita degli antigeni MHC I non permette più il riconoscimento della cellula come “self” da parte dei linfociti natural killer, che attivano vari meccanismi dell’infiammazione per uccidere la cellula e bloccare la proliferazione virale.

Questo è uno dei primi meccanismi antivirali adottati dall’organismo, quando ancora non è cominciata la produzione di anticorpi, che richiede 10-15 giorni per risultare quantitativamente efficace. È però evidente che se il numero di cellule infettate è troppo elevato, la loro distruzione comporta dei danni d’organo multipli, gravi ed irreparabili portando spesso anche a morte repentina malati, talvolta in condizioni apparentemente buone fino a poche ore prima. In questo caso la terapia antinfiammatoria è fondamentale per guadagnare tempo, associata ad anticorpi monoclonali, nella speranza che l’organismo riesca intanto a trovare le risorse per contrastare l’infezione.

  • Ridotta produzione di interferone I e III o reazione auto-anticorpale contro gli stessi. Gli interferoni sono molecole legate all’infiammazione la cui produzione è regolata in modo assai complesso. Alcuni inducono l’attivazione di enzimi che distruggono l’RNA virale all’interno delle cellule, risultando fondamentale per contrastare le infezioni virali. Alcuni soggetti hanno alterazioni del genoma che non consente loro di produrre interferoni funzionanti in quantità sufficienti. Altri soggetti affetti da malattie autoimmuni (LES, timoma, miastenia gravis, …) sviluppano auto-anticorpi anti-interferone che aumentano con l’età ed in corso di infezione Covid-19 e rendono le cellule incapaci di opporsi all’infezione virale, sviluppando quindi le forme più gravi.

In questi casi la terapia di supporto contempla tutti i presidi noti, risultando però, spesso, inefficace. Stranamente alcuni dei soggetti entrati nello studio presentavano questi auto-anticorpi già da molti anni, senza aver mai manifestato una particolare predisposizione a malattie virali in forma grave.

Lo studio “COVID Human Genetic Effort” (CHGE, www.covidhge.com), coordinato dalla Rockfeller University di New York, ha quindi dimostrato che soggetti con errori congeniti dell’immunità, dovuti ad alterazioni del circuito dell’interferone, rappresentano almeno il 20% dei pazienti con polmonite critica da Covid-19 in quanto gli individui con bassi livelli di IFN di tipo I nell’epitelio respiratorio non sono in grado di prevenire la diffusione del virus ai polmoni, al sangue e ad altri organi durante i primi giorni di infezione.

Sulla base di questo assunto si dovrebbe effettuare uno screening per identificare i soggetti più a rischio, vaccinarli precocemente, sottoporli, se ammalati, a trattamenti specifici e personalizzati con interferone e a plasmaferesi terapeutiche per eliminare gli auto-anticorpi.




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